CAMMINO – I LUOGHI DI CATARSINI

5 – CATARSINI E SAN MARTINO

IL ROMANZO GIORNI NERI AMBIENTATO A SAN MARTINO

«Per giunta c’era la guerra e, malgrado tutto il silenzio che si avvertiva nella campagna versiliese, l’uragano infernale non doveva essere molto lontano; e quindi lasciava presagire giorni duri, torbidi, senza gloria per nessuno, dove l’umanità cammina cieca, perseguitata o inferocita dal peso di un grande conflitto».

A.Catarsini Giorni neri, p. 23, La Nave di Teseo, 2021

Tra il 1943 e il 1945 Alfredo Catarsini come moltissime altre persone in quei difficili anni venne sfollato da Viareggio verso l’entroterra. La ferrovia e la via Aurelia che attraversavano la Versilia erano arterie strategiche per i collegamenti e il rifornimento delle truppe impegnate nel conflitto mondiale e la presenza della Linea Gotica poco distante rendeva l’intera area un luogo pericoloso a rischio bombardamenti, come poi si rivelò.

Catarsini trovò rifugio in alcuni luoghi della Lucchesia come la Val Freddana e il Monte Magno che furono teatro di fatti atroci, con deportazioni di massa, uccisioni di ostaggi, veri e propri eccidi. Il libro Giorni neri ambientato in quei luoghi e in quell’estate del 1944, fu realizzato nel 1968 utilizzando le illustrazioni e sviluppando gli appunti che aveva preso durante quel periodo. Si apre con un baroccio trainato da un cavallo carico di masserizie che cammina lento sulla strad. Venanzio il barocciaio conduce il carretto carico dei beni degli sfollati diretti nell’entroterra su una strada bianca, ai lati la campagna assolata di inizio estate.

Nel libro si legge…

«Là in fondo c’erano la chiesa di San Martino con la sua antica torre, il mulino con la sua grossa ruota ridotta ormai al silenzio. Il sole intanto batteva i suoi ultimi raggi sul monte Magno che gli uomini vedevano ora contro luce, mentre dal lato del mare infiammava di un rosso aggressivo la pianura dell’intera Versilia».
A. Catarsini, Giorni neri, p. 216, La nave di Teseo 2021

Nella chiesa di San Marino in Freddana Catarsini realizzò meravigliosi affreschi di cui c’è un’eco anche nel romanzo. Nelle pagine si legge infatti di “un pittore” anch’esso rifugiato a cui i paesani in cambio di farina, olio, pane e qualche moneta chiesero di abbellire la loro chiesa. E “il pittore” nel libro lo fa, facendo posare (come fu in realtà) gli abitanti del posto tra cui anche il protagonista del libro il marinaio Nando.

Biografia, storia e finzione si mescolano in “Giorni neri” che nasce come testimonianza romanzata di quei momenti e prende le mosse proprio dagli appunti che l’autore scrisse durante quei lunghi mesi in cui si trovava lontano dalla sua città, dai suoi affetti, appunti che si trasformarono poi in una storia vera e propria, in un romanzo che dalle radici della realtà ha creato personaggi fittizi ma che tra le pagine incarnando sentimenti ed emozioni universali ci restituiscono un affresco veritiero di quanto accadde.

Il romanzo però non è autobiografico, di sé Catarsini parla soltanto in terza persona identificandosi ne “il pittore” soltanto in alcune pagine, queste che seguono:

[…] Ho camminato abbastanza stamani, ed ho pensato anche a lei, caro pittore, per la faccenda della farina. Il padrone del mulino contribuirà affinché i lavori di pittura siano condotti a termine; un quintale di quella bianca ed un po’ d’olio me lo porterà il padrone di quel bosco, nel quale andavano a segare i lecci Nando e Frustino.

Insomma abbiate fiducia nella Provvidenza, che non abbandonerà nessuno. Intanto lei lavori, faccia una bella cosa per il bene della nostra Santa Chiesa.

E ancora

[…] Il pittore rimase lì per lì un po’ confuso, discese con sveltezza la scala e pensava che uscire fuori non fosse davvero prudente, quindi stavano ora tutt’e due studiando come potersi in qualche modo nascondere. Imboccarono la porticina della sacrestia, ma subito si ritirarono, perché il pittore intuì che non sarebbero andati in un luogo sicuro. Il Rettore era assente e la perpetua stava lavando tranquillamente il bucato, fuori, nel Porticciolo della Canonica.

Nando, dal centro della chiesa spiava le mosse dei Tedeschi contandone perfino le soste che facevano per guardare la campagna.

Eppure vengono qua, – diceva – Bisogna veder di non re- star intrappolati, porca miseria.

Intrappolati? – mormorò il pittore aggrottando la fronte – Ecco qua, io intanto mi seppellirò vivo e voi, Nando, cercatevi un buco da non farvi trovare.

E dove?

Guardate, sotto la scalinata dell’altar maggiore c’è una botola, alzatene il coperchio e infilatevi dentro. Lì non vi troverà nessuno.

I Tedeschi non erano affatto gli stessi che due giorni avanti si erano portati dal Rettore per sapere chi avesse ucciso quel loro camerata. Camminavano a strattoni, parevano stanchi, poi si fermarono a parlare con un vecchio dal viso butterato che si trovava lì sulla proda del suo campo, dove era nato un po’ di tutto, anche alte felci.

Nando e il pittore si portarono allora dietro la porta centrale della chiesa, ma non poterono ascoltare chiaramente ciò che quel vecchio stava dicendo ai Tedeschi.

Lo vedevano smanaccare, battergli garbatamente le mani sulle spalle, poi ridere mostrando nello stesso tempo una incalzante indifferenza a tutto quello che i Tedeschi dicevano e che il povero vecchio non capiva affatto. Si avvicinarono al sacrato, salirono i due gradini, si fermarono sulla porta centrale la cui tenda marrone mossa dal vento in quel momento andò a sbattere nel volto di uno di loro. C’era una luce piena di sole fuori, che contrastava con la penombra che avvolgeva l’interno della chiesa che non dava modo di vedere nulla.

I Tedeschi entrarono e, ad ogni passo, si fermavano a baloccare; guardavano ora un po’ da tutte le parti. Nei loro volti erano reperibili i segni di persone abituate al rispetto dei luoghi sacri. Essi rappresentavano, almeno da certi aspetti, l’emanazione del protestantesimo più ortodosso. Si portarono quindi vicino all’altare maggiore per meglio osservare in alto le pitture non ancora ultimate. Erano curiosi di sapere cosa esse rappresentassero, forse nei loro sommessi dialoghi cercavano di afferrarne il vero significato biblico, del quale, loro più di altri, avrebbero compreso tutto il valore morale che risiede in ogni religione.

Naturalmente i Tedeschi sono esseri portati all’analisi di tutte le cose – diceva il pittore, perciò non cessano mai di osservare ogni cosa che capita sotto i loro occhi, o di rigirarsela fra le mani qualora si tratti di cosa palpabile.

Mentre stavano per salire sul palco per osservare il «pezzo» dipinto, eccoti Berta che s’inginocchia dinanzi al Santissimo Sacramento. Un certo colpo le fece a vedere i due Tedeschi sulla scala, vicino all’altare, ma d’altra parte, come donna, non poteva dir loro nulla, perché il silenzio e la lingua stretta fra le labbra, costituivano davvero la migliore sicurezza. Berta si fece allora il segno della croce e tossi un paio di volte. Uno dei due Tedeschi ridisceso dalla scala, si avvicinò immediatamente per dirle qual- cosa. Questi non parlava perfettamente l’italiano, ma Berta intuì benissimo che le aveva detto qualche cosa per la sua tosse.

Sono raffreddata – rispose allora la donna aggiustandosi il grembiule alla vita.

I due Tedeschi guardavano con una certa diffidenza sembrava avessero paura e, dopo che Berta si fu ritirata, risalirono la scala attratti dal lavoro del pittore, che questa volta poterono guardare a loro agio.

Ne palpavano con evidente piacere l’intonaco dipinto, parlavano, ridevano ed uno di questi, ad un tratto, sentì il desiderio di pigliare un pennello e fare il suo nome su quella parte d’intonaco rimasto ancora grezzo. L’altro camerata, che teneva fra le labbra una sigaretta spenta, tolse il pennello di mano al compagno e si mise a schizzare, a modo suo, uno stukas in volo che sganciava bombe da tutte le parti.

Erano due giovanottoni dall’aspetto semplice, se si vuole, anche imbambolato, che evidentemente tutto pigliavano in quel momento per gioco, per passatempo, conservando però il dovuto rispetto all’opera già ultimata, che era sostanzialmente bella, coi suoi colori forti.

Ogni tanto, dalla porta della Sacrestia, Berta spiava; li vide poi scendere la scala e udì starnutire rumorosamente uno di loro. Li sentì ancora parlare, gesticolando con le braccia, ma con ordine, con compostezza, quindi fermarsi dinanzi al Crocifisso di legno nero ed affumicato come un’aringa, ai quali doveva ricordare un certo venerdì di aprile dell’anno trenta, fissato lì sul muro da oltre un secolo con tutto il peso della Sua Croce. Uno

di questi, presa una sedia, vi salì per meglio osservarlo. Lo palpava con la sua mano bianca, pallida, tutto compiaciuto quasi ne provasse un intimo godimento tattile. Poi discosto la sedia e fece cenno al camerata, perchè lo guardasse anche lui da una certa distanza.

Più avanti si legge ancora

Conoscete il pittore? Quello che lavora in chiesa? Ebbene, quando lo vedrete ditegli che non continui a dipingere la guerra sulle mura di una chiesa, ma che venga a farla anche lui, qui con noi. So che siete stato a fargli da sentinella senza garitta, ma pronto e deciso ad ogni eventuale presenza dei Tedeschi. Però è un brav’uomo, anche se dipinge carri armati È se al posto degli angeli fa volare degli «spiffair».

E oltre

Entrarono tutti quanti in paese dalla parte della chiesa, la cui porticina laterale era accallata; qualcuno c’infilò la testa, ma non vide nessuno, solo un paio di candele, sopra l’Altare maggiore, fiaccolavano in alto una luce fioca sull’affresco incompleto del pittore.

Nando e Frustino, ma anche Delta, il pittore, il rettore, sono alcuni dei protagonisti e sono tanto reali nelle descrizioni, nelle azioni, nei luoghi che abitano da sembrare veri. Vero è il bosco lussureggiante di un verde intenso che apre il cuore alla speranza, vero è la luce rossa del tramonto sul mare che si spande oltre le alture.

Da pittore quale è Catarsini dipinge con le parole e scorrendo i capitoli sono le immagini che si fissano nella mente del lettore per rimanerci, volti e luoghi si animano come in un affresco.

Ci sono le piccole grandi storie, ci sono gli uomini e le donne che, sradicati dalla loro terra si trovarono con le loro poche cose in un altrove non cercato pieno di dolore e paura.

Personaggi vividi, dialoghi intensi, aspri che ci raccontano forse la parte più difficile della nostra storia.

Giorni neri, rieditato da La nave di Teseo nel 2021 è anche, grazie alla registrazione a cura del UICI della Toscana, un audiolibro per gli ipovedenti.

E’ un romanzo completo dalle molteplici letture, intensa e coinvolgente quella fatta da Cristina Acidini all’interno del suo piccolo saggio Giorni Neri di Alfredo Catarsini: il colore negato pubblicato sul catalogo della mostra “Alfredo Catarsini dalla Darsena alla Linea Gotica 1917-1945” Maria Pacini Fazzi Editore 2022. Acidini da critica d’arte rilegge in libro in chiave pittorica “Se Giorni neri fosse un quadro -scrive- sarebbe un severo monocromo, percorso da sottili vibrazioni tonali e punteggiato da misuratissime note di colori squillanti, verde o rosso. […] È un quadretto post macchiaiolo quello che apre la prima pagina. Un cavallo con la bava “bianca come una saponata”, un carro, la strada bianca anch’essa sotto il sole tiepido, fra grano e vigne le poche ombre: la luce meridiana trasmette attraverso il pur breve giro di frase un’impressione di chiarore, ma la rustica serenità non è che un’apparenza destinata a una breve durata.

Cristina Acidini “Giorni neri di Alfredo Catarsini: il colore negato”

Il titolo del romanzo del pittore e scrittore contiene fin dal titolo un colore.

Ma si tratta in realtà di un’assenza di colore, dalla quale tutte le tinte sono scomparse, cancellate dalla “sintesi sottrattiva”- questa la definizione tecnica – che ha per risultato la mancanza totale di luce, il buio assoluto, la tenebra paurosa. Un’ancestrale metafora dell’oscurità interiore e quindi del Male.

I “giorni neri” sono infatti quelli della seconda guerra mondiale nei terribili ultimi tempi dell’armistizio, del passaggio del fronte, della resistenza partigiana, descritti da Catarsini in forma di romanzo attingendo al suo vissuto personale di sfollato in Val Freddana: di uno sfollato operoso, che dipingeva sui palchi dell’abside della chiesa di San Martino gli affreschi tuttora visibili nell’abside. Da questo osservatorio racchiuso nel breve giro di alcuni monti e poggi, costellati di chiesette e casette, di boschi e poderi, di sentieri e di torrenti, simbolicamente convergenti attorno a una non meglio descritta ma temuta Filanda – sappiamo d’essa solo che è cinta da un muro di mattoni rossi (p.300) – dove sono acquartierati i soldati tedeschi.

Si potrebbe pensare che, posato il pennello del pittore, Catarsini abbia intinto la penna di memorialista e romanziere nella medesima tavolozza di tinte smaglianti. E invece, nella sua prosa schietta in cui prevale la forma dialogica tra i personaggi principali e secondari, i colori sono evocati con parsimonia, le tinte sono austere, i toni ombrosi, salvo alcune eccezioni, poche ma piene di significato. Come se gli abitati e le persone e la natura stessa, sotto l’ombra permanente della tempesta di paura e di dolore addensata sui luoghi e nei cuori, andassero progressivamente a sbiadire tendendo al livido, allo scuro, fino al nero appunto. “Il loro tragico mondo – scrive Catarsini contemplando con pietà i suoi protagonisti – si faceva sempre più chiuso, più tenebroso” (p.49), e in quelle inquiete giornate perfino la luce solare diventava “torba” (p.87). “Giorni penosi, duri, neri” è la sintesi che dà il titolo al libro (p.166), “neri e duri” (p.216) sono i momenti più difficili della piccola storia locale, che si inserisce nella grande storia in corso come la piccola ma non meno necessaria tessera di un più vasto mosaico.

Se Giorni neri fosse un quadro, sarebbe un severo monocromo, percorso da sottili vibrazioni tonali e punteggiato da misuratissime note di colori squillanti, verde o rosso. Appena – ma poco – più vivace di Guernica, il capolavoro in bianco e nero sfumato di grigio e sabbia, col quale Pablo Picasso commemorò le tragedie della guerra civile spagnola. Vediamo dunque qualche esempio di questo dosaggio verbale dei colori, così parco da sorprendere in un artista come Catarsini, uso a esprimersi dipingendo con gamme cromatiche vivide e pastose.

E’ un quadretto post-macchiaiolo quello che apre la prima pagina. Un cavallo con la bava “bianca come saponata“, un carro, la strada bianca anch’essa sotto il sole tiepido, fra grano e vigne, le poche ombre: la luce meridiana trasmette attraverso il pur breve giro di frase un’impressione di chiarore, ma la rustica serenità non è che un’apparenza destinata a una breve durata. Ritroveremo solo molto più avanti una situazione macchiaiola, in una rara pausa di serenità contemplativa: “nel bosco […] cominciava a filtrare il sole, talora distendendovi luci vive che pestavano con i piedi ” (p.316).

Invece, fin dalle prime pagine l’alternanza di bianco e di nero si afferma come il motivo dominante, che in variazioni innumerevoli si esprime come contrapposizione di luce e d’ombra, di diurno e di notturno. Sotto la sorveglianza dei maestosi monti apuani “ricchi di marmi bianchi” (p.16) si raccoglie l’umanità misera e dolente degli sfollati, che incontra quella non meno misera e dolente degli abitanti locali, in un transito di truppe di tutti gli schieramenti ormai appiattite e anonime, così da esser rapidamente tratteggiate come “masse nere di uomini“(p.19). E subito il contrasto si ripropone in piccola scala, con le “narici nere” e gli “umori biancastri” del muso equino. Anche il cane bastardo è bianco e nero (p.32). Le nuvole sono bianche (p.33), le camicie dei fascisti sono nere (p.40), la terra d’uno spiazzo è nera (p.51), nero è il fumo puzzolente d’una pessima sigaretta (p.55). Neri sono i crocifissi lignei offuscati dal tempo, affumicati, forse patinati dal passaggio di mani devote per generazioni (pp.173, 270), nero il paramento chiesastico di velluto (p.175).

Tanto più dunque risalta la pennellata vivida di un viso bonario – quello di Venanzio – “colorito come l’aragosta” (p.21) e poco dopo la “faccia laccata di rosa” di un soldato tedesco (p.28): due note squillanti, che irrompono nello scenario monocromo con effetti diversamente grotteschi, il rosso del vecchio sfollato paragonato a un crostaceo, il rosa del militare forestiero probabilmente ispirato a un maiale. Di un vecchio vien descritta una singolare bicromia: “fronte terrea, faccia strinata dal sole” (p.129). I biondi soldati delle SS sono “rosei come una mela” (p.197) e uno perfino rosso, anche lui, “come un’aragosta” (p.275). La mano d’un altro soldato tedesco è “bianca, pallida” (p.173). Triste, invece, l’incarnato “cianotico” d’un giovanotto striminzito (p.33), tragico il colorito “livido” d’un impiccato (p. 223). E’ “malaticcia” perfino la faccia delle stelle (p.305).

I capelli degli ex alleati, divenuti nemici dopo l’8 settembre, sono d’un biondo “ariano” (p.174); un tenentino li ha “come stoppa” (p.260).

E’ un’umanità anchilosata, storpiata al limite della caricatura, quella che sfila sotto gli occhi di Catarsini, o che abbia i tratti deformati dalla miseria atavica delle genti di montagna e di mare, o che presenti la fisionomia barbarica dei popoli nordici, freddi di pelle, d’occhi e di capelli, gelidi di cuore. I colori stessi che la caratterizzano, col progredire della storia, divengono incerti e torbidi: bluastri gli occhi, biancastra la pelle.

Lui, lo scrittore, guarda quell’umanità dolente da pittore, inserendo nella trama un anonimo se stesso in rare comparse, veri e propri “camei” in cui viene evocato come “quello che fa i quadri” e si arrampica sui ponteggi per affrescare in chiesa.

La parte propriamente artistica di Giorni neri, Catarsini la esprime nelle tavole di grafica che intervallano il testo. Con linee spezzate e aggrovigliate come fili di ferro maltrattati, costruisce le immagini potenti di uomini, donne (e qualche bestia) impoveriti e provati, ma non domati. Un sacco, uno zaino, un fucile sono gli unici beni che hanno potuto serbare. Ai contadini e agli sfollati, con segno nervoso e sicuro il pittore affianca i militari, non meno sconvolti dei civili, e le sagome patetiche degli impiccati penzolanti. In copertina, una stralunata faccia post cubista in bianco e nero annuncia la bicromia prevalente nel libro.

E’ con l’apparizione di Delta, giovane partigiana, che squillano note di grazia, sia pure di una grazia fugace racchiusa in uno sguardo, in una mossa, in un accessorio appena appena femminile. Delta è salutata con una inedita terna di colori decisi: bruni i capelli, grigia la camicetta e rosso il fazzoletto che porta al collo (p.54). Altri fazzoletti sventoleranno, col vigore di macchie chiare e brillanti capaci di rischiarare le scene sempre più cupe: “bianco di bucato” (p. 80), “bianco a fiorellini rossi” (p.244), bianco in segno di resa (p.341); ma solo il fazzoletto rosso di Delta è un simbolo di schieramento politico e di coraggiosa militanza. I suoi capelli d’un nero profondo, “come la pece” (p.215), diventano il filo conduttore di una contrapposizione fra l’armoniosa bellezza mediterranea e i colori di volta in volta slavati o congestionati degl’invasori d’Oltralpe. Anche il giudizio morale passa attraverso l’applicazione di un canone estetico, secondo il principio greco della “kalokagathìa”, ovvero compresenza di bellezza e bontà, profondamente radicato nella cultura italiana.

Lo scenario continua a proporre quadri monocromi, come un mattino “velato, semigrigio” (p.195), o una “polvere biancheggiante nel grigiore della sera” (p.289), con l’occasionale risalto di macchie cupe: nere le labbra intrise di sugo di more (p.178), nere le scarpette nuove di vernice di Delta vestita per sedurre (p.291), nera una bottiglia misteriosamente murata su un comignolo (p.289). Le “folte e cupe ombre della notte” incombono minacciose (p.300).

Bianche però le strade polverose, candida “una chiesetta che pareva fatta di ricotta, tanto era bianca” che si spicca – a sorpresa – dalle tenebre notturne (p.108): la immaginiamo dipinta con un impasto corposo e luminoso, steso a colpi di spatola sulla tela abbrunata. E una rapida visione geometrica del cammino, che si presenta davanti al gruppetto dei partigiani, ha la potenza austera di un’antica xilografia: “La strada maestra […] era bianca come la morte. Vi scorrevano ai lati delle fosse scure che davano un senso di lutto” (p.263).

E la natura circostante? Dopo un ameno “prato verde intenso” all’inizio (p.33), anche l’ambiente, in prevalenza montuoso e boschivo, progressivamente s’infosca. Cipressi avvolti dalle ombre, selve formanti macchie fitte di verde cupo, un leccio che ha una “superba chioma eternamente scura” (p.122), un altro che è “nero come la notte” (p.238). “La natura appariva come un moribonda“, dichiarerà più avanti il pittore-scrittore, osservando i castagni “con le fronde precocemente rinsecchite, di un colore pallido, stinto” (p.346). I prati inariditi sono “quasi gialli” (p.363).

Senza che il paragone possa dirsi stringente, la tavolozza immaginaria di Catarsini ha qualche tratto di somiglianza con la gamma dei colori e dei toni evocata da Dante Alighieri nel condurre il lettore della Divina Commedia attraverso le angosciose tappe della prima cantica, dedicata all’Inferno. Il verde minaccioso della fitta selva avvolta dalla notte, il sorgere del sole, e poi il graduale inoltrarsi nel percorso infernale con la scomparsa della luce e la prevalenza aggressiva delle tenebre. Rare le pause rinfrancanti, come il prato smaltato d’erbe attorno al castello degli Spiriti Magni – qui, il “prato verde intenso” iniziale (p.33) -, o i fioretti rugiadosi che salutano il mattino: qui le “margheritine gialle, bianche, rosa” (p.217). Ben presto invece l’itinerario scende verso cerchi e gironi di crescente cupezza, dipinto a parole da Dante con tutti i toni del nero, del grigio, del marrone, fino al livore scialbo della “ghiaccia” luciferina. Nell’Inferno dantesco, la luce rossa che squarcia le tenebre è quella delle fiamme sempiterne: qui, quella degli effimeri fenomeni atmosferici.

Perché, in cerca di un’aria meno oppressiva, non resta all’artista che rivolgersi al cielo, dove vanno in scena fantasmagorie di luce sovranamente indifferenti ai casi degli uomini. E se anche un’alba può apparire “timida, silenziosa, forse scontrosa” (p.305), più spesso è soave l’aurora che “tinge di rosa le valli” (p.276), mentre la gloria suprema del tramonto si esprime in un trionfo di rosso. Così Catarsini rivela se stesso, con l’espediente di una carta scritta dal pittore sfollato, che uno dei protagonisti, Nando, legge ad alta voce agli altri: “…vedo il sole quando fa capolino dietro la montagna e quando a sera discende verso il mare“; e lo spettacolo del tramonto gli era apparso quella sera “ardente e pieno di fuoco come il sole che se ne andava in un altro mondo” (p.233). In confronto a questa veduta, che il pittore gode da una sua finestrella a ponente, ancor più vasta e rutilante è l’immagine captata dall’alto, dove lo sguardo gira dalla valle all’orizzonte lontano, oltre i neri profili montuosi: ” Là in fondo c’erano la chiesa di San Martino con la sua antica torre, il mulino con la sua grossa ruota ridotta ormai al silenzio. Il sole intanto batteva i suoi ultimi raggi sul Monte Magno, che gli uomini vedevano ora controluce, mentre dal lato mare infiammava di un rosso aggressivo la pianura dell’intera Versilia” (p.216). Proprio a quella marina, benevolmente infuocata dal tramonto, corre l’occhio del pittore-scrittore e più ancora il cuore, colmo di struggente nostalgia.

Con la sua tavolozza lessicale – severa, ma capace di fulminee accensioni -, Catarsini ha saputo “dipingere” da par suo gli stati d’animo e le atmosfere di quel terribile frangente, lasciando il romanzo in sospeso e quasi incompiuto. Forse, per far sì che questo suo monito contro gli orrori della guerra continui a riecheggiare indefinitamente nelle coscienze di noi contemporanei.